4992

Non l’avevo mai neppure sfiorata, una mucca.

Che poi avvicinare, o addirittura toccare – soprattutto le persone -, non è mai stato il mio forte.

È una questione di distanze minime, interpersonali, oltre alle quali difficilmente mi spingo.

Men che meno in questo periodo.

 

La chiamano bolla prossemica.

È strutturata per soglie e regola le relazioni tra gli esseri umani. Soglie intangibili, ma tutto sommato misurabili.

È il nostro spazio, quello più prossimo.

È lo spazio che ci circonda, all’interno del quale interagiamo con il mondo.

Una cosa non così complicata, in realtà. Solo una forma diversa di comunicazione, non verbale.

 

Nel mio caso si tratta piuttosto di una barriera, di riservatezza, solida e ben costruita, che talvolta provo ad assottigliare, ma solo dopo lunga e assidua frequentazione.

Nella maggior parte dei casi senza successo.

Con gli animali il discorso è differente; sicuramente meno complesso. O quantomeno per me.

Credo si tratti piuttosto di una sorta di timore, reciproco e reverenziale.

Per quanto docile possa essere un animale, manterrà sempre, nello sguardo e nel comportamento, un residuo di imperscrutabilità tale da elevare il mio livello di allerta, soprattutto nei primi approcci.

Si capisce quindi perché una bestia, per di più della stazza di un bovino, non mi sia mai arrischiato a sfiorarla.

Men che meno ad accarezzarla.

 

Giugno, anche per Cunéaz, villaggio alpino della Val d’Ayas, è il mese della transumanza.

È un rito che si ripete, annualmente, e che conserva ancora il fascino di una tradizione d’altri tempi.

Finito il periodo di stallaggio, a fondo valle, viene il tempo di salire in quota. Per tutti, animali e non.

Un’abitudine, e una necessità, per chi con le mucche ci vive e ci lavora, quotidianamente.

Un’aspirazione per me, rinnegato cittadino con ambizioni da pseudo-montanaro: prendere parte, anche solo per una giornata, a quella vita che, zaino in spalla, ho soltanto immaginato con gli occhi curiosi, ma estranei, di uno capitato in quota non per caso, ma quasi.

Immergermi nei suoi riti e nelle tradizioni alpine.

Almeno per un giorno.

Finalmente.

 

È Paolo che mi permette questo battesimo.

Ho conosciuto Paolo grazie allo scialpinismo, alla scuola del CAI di Milano.

Indossava, con compiacenza, un maglione grigio, di lana, con un disegno di trote in bella vista. Sì, trote.

Ricordo nel dettaglio il suo maglione, e ricordo il suo orgoglio nel portarlo.

Non da tutti.

È grazie a lui se oggi sono qui, un po’ infreddolito, ad aspettare il camion con le mucche e pronto a salire in quota.

Con Paolo condivido una passione intensa per la montagna, e un’amicizia – ormai profonda – fatta di tanti momenti passati insieme, tra cime, rifugi e alpeggi, più o meno innevati.

Pescatore, per passione, e zootecnico, di professione, è lui che conosce i malgari di Cunéaz, la famiglia Favre; è già salito in quota insieme a loro, e a queste mucche, proprio per la transumanza.

Ne avevamo parlato in occasione di qualche gita e io avevo ascoltato, curioso e interessato, i suoi racconti.

Ci sono sempre dei dettagli, oltre ad una qualche affinità caratteriale, per i quali si scelgono le persone con cui spendere, e a cui dedicare, il proprio tempo libero.

Qualche piccolo particolare che non passa inosservato.

Le trote in lana, e questi racconti – tra gli altri -, non passarono inosservati, e sono parte di quei dettagli che mi hanno spinto a cercare, e a coltivare nel tempo, la sua amicizia.

 

Le mucche – una sessantina in tutto – sono in arrivo da Ivrea; noi da Milano.

Destinazione comune, Champoluc.

Loro attirate dai prati di giugno, noi dalla loro corsa all’alpeggio.

Si fanno attendere un po’, ma poi iniziano ad arrivare.

Intorno alle nove e mezza, al parcheggio della cabinovia.

I camion che le trasportano sono quattro, e ci raggiungono un po’ alla spicciolata.

Scaricate a terra, iniziamo a radunarle affinché non si disperdano.

È un continuo muggire, anche insistito.

Insolito, per quanto mi riguarda; mi dicono che è normale, che “E’ la smania di salire“.

Qualcuna inizia a spazientirsi, inasprendo il lamento.

Qualcun’altra prova una timida fuga, sperando di passare inosservata.

Sembra di stare ai blocchi di partenza, in attesa dello sparo.

Finalmente arriva l’ultimo carico, di Valdostane nere.

Uno degli allevatori comincia a salire, e via, si rompono gli argini.

 

Lo scampanio che fanno le mucche, quando sono in transumanza è diverso dalla quella pacata e pigra cadenza che le accompagna quando sono al pascolo.

È il ritmo che è diverso.

Il rintocco sulla campana è accelerato, con una frequenza almeno doppia rispetto all’ipnotica cantilena d’alpeggio.

Le mucche, in transumanza, non camminano; corrono.

Sì, corrono. Le mucche.

Soprattutto all’inizio.

È la smania di salire.

 

Noi siamo dietro, e fatichiamo a tenere il passo.

Ci accodiamo alla comitiva, con il gruppo delle ultime; forse le più anziane.

Tra queste, una pezzata rossa, grossa e tonda.

Fa il suo ritmo, non forsennato ma sostenuto.

Non è la sua prima transumanza, e quindi sa cosa sta succedendo.

Tira, ma non troppo; soprattutto sui tratti più ripidi.

Saliamo, alternando la carrareccia alla mulattiera che taglia tra i boschi.

Camminiamo alla fine di una lunga fila di pezzate rosse e di Valdostane nere che si inerpicano sul tracciato che porta in quota.

Da sole occupano l’intero sentiero e, ai tornanti, hanno anche qualche problema a girarsi in un fazzoletto di terra.

Qualcuna rallenta, insicura, qualcuna accelera, qualcuna si blocca; altre si rinfrescano, ad una chiazza di neve che ancora resiste all’ombra del margine del bosco.

Però tutte vogliono andare su. Assolutamente.

È la smania di salire, e le capisco.

 

La pezzata rossa, grossa e tonda, ha un bel campanaccio.

Non tutte le sue compagne di transumanza ce l’hanno, solo quelle più avanti con l’età, le più mature.

Come tutte le altre, invece, è marchiata all’orecchio con una piccola etichetta gialla: ha il numero 4992.

Mentre saliamo la ritrovo, più volte, lungo sentiero.

È uno splendido animale e, pian piano, inizio ad osservarne i comportamenti e il modo di fare.

A studiarla insomma.

Gli animali mi incuriosiscono sempre, soprattutto i più miti.

Sembra gentile, e docile, e come spesso mi accade anche con altre bestie, mi trasmette tenerezza.

Probabilmente non ha più la forza per tirare la mandria, come un tempo. È un po’ affannata, e nei tratti soleggiati e ripidi paga ancor di più la fatica.

È in fondo al gruppo e interpreto il suo lento andare come un messaggio di serena consapevolezza, da cui forse dovrei imparare qualcosa.

Pare anche che non disdegni salire in nostra compagnia.

Ogni tanto si ferma, e guarda indietro, verso di noi.

Magari il suo è più timore che altro. Ma lo sguardo all’indietro, forse a cercarci, non mi lascia indifferente.

Essere osservato da un così solido pachiderma mi rende ancora più curioso.

Ad un certo punto provo ad accarezzarla, perché la mia barriera si è assottigliata e la tentazione si è fatta forte.

Sapere quanto è liscio, e vivo, il manto di un animale così mite e gentile, è un impulso che non riesco più a contenere.

Quindi, nonostante un residuo di titubanza, la accarezzo, con un gesto che scavalca in un attimo tanti pensieri.

Lei si prende le mie carezze, e secondo me le apprezza.

Forse ho fatto un passo avanti all’interno della sua bolla, perché anche gli animali hanno la loro. E abbiamo fatto amicizia.

O forse, molto più semplicemente, ha un po’ meno paura di me.

È gigante, e le carezze lo confermano. La mia mano è piccola, a confronto, e mi chiedo anche se 4992 possa sentirla.

È un essere gigante, ma docile.

Forse è questo che mi attira così tanto, nelle mucche: tanta forza, tanta potenza, ma anche tanta gentilezza.

E che a tratti, nonostante la loro stazza, paiano indifese e remissive. Proprio come questa bestia.

Non posso quindi che provare a trasmetterle la mia, di gentilezza; o almeno la poca che mi è rimasta ultimamente.

Appena ho spazio, perché il sentiero si allarga, o perché le altre mucche la passano e si allontanano, la accosto ancora.

E ancora il suo occhio mi controlla per capire cosa stia facendo.

La accarezzo nuovamente, al garrese, e le do un paio di pacche stagne sulla parte anteriore della spalla: devo sentire come suona, e risuona, una bestia di questa stazza.

Perché la pelle sembra talmente tesa da essere pronta ad esplodere.

Così, tra una carezza e una pacca, abbiamo fatto un lungo tratto di sentiero insieme: lei, Paolo ed io.

Io orgoglioso di sentirmi un po’ montanaro, completamente immerso nella natura e un po’ amico di questo docile animale, Paolo entusiasta del mio entusiasmo, da amico vero quale è, e lei evidentemente sorpresa da questi due figuri che, insistentemente e incomprensibilmente, le girano intorno salendo.

 

Procedendo lungo il sentiero, incontriamo le prime malghe, quasi al margine del bosco.

Qualcuna piuttosto diroccata, altre evidentemente abitate e ben conservate.

Il tracciato corre attorno ai fabbricati, delimitato da muretti a secco e da staccionate.

Un ultimo tratto a salire in costa, a superare una rada barriera di abeti, e siamo finalmente su, alla prima grande radura.

L’orizzonte si allarga e il paesaggio si apre.

Le mucche procedono indefesse, ma io no.

Io mi fermo.

Loro forse non sanno cos’è la bellezza, ma io la riconosco.

E devo assorbirne almeno un po’, di questo paradiso, per portarmelo via; per quando questa bellezza non mi sarà disponibile.

È un fotogramma che provo ad imprimere sul fondo della retina, perché vi rimanga il più a lungo possibile.

In fondo è sempre lo stesso passaggio, ma non mi ci abituo mai: ad un certo punto, da sotto, vedo che in cima al sentiero gli alberi si diradano e l’azzurro del cielo si abbassa a contornare anche i rami inferiori.

Capisco che lì sopra accadrà qualcosa, che la pendenza del terreno si attenuerà fino a portarmi in piano e che l’orizzonte si aprirà regalandomi una visuale diversa, molto più ampia.

Passerò quella soglia, e avrò finalmente l’idea d’insieme del luogo in cui mi trovo.

Tutto sembrerà perfettamente composto e la maestosità di quei luoghi raggiungerà il suo apice, sorprendendomi ancora una volta.

E la loro bellezza tornerà ad essere una ragione in più per la vita. O quanto meno per la mia.

Una delle più forti.

 

La luce è ancora quella pulita, del mattino, e il cielo è azzurro, magnifico.

Davanti a me le mucche procedono ormai disordinate sui primi prati d’alpeggio.

A sinistra, il versante verde del vallone di Cunéaz; a destra, qualche larice, appena germogliato, e, a contrasto, alcuni abeti più scuri.

Tra l’azzurro del cielo e il verde dei prati, il bianco, misto al grigio, della fascia rocciosa, ancora innevata sopra i 2.000 metri.

Mi sembra di stare in Paradiso, o quanto di più vicino al Paradiso il mio pensiero possa elaborare.

 

Le mucche si fermano e cominciano a brucare, perché ormai è tempo di una sosta.

L’erba inizia anche ad avere un sapore diverso.

I prati sono pieni di macchie gialle di tarassaco e il latte non potrà che averne beneficio.

C’è un po’ d’acqua nel rigagnolo che scorre a lato del sentiero.

Ci fermiamo anche noi, a bere dalle borracce e a fare due chiacchiere con gli allevatori.

Con il loro bastone, e la faccia già un po’ abbronzata, ci raccontano della transumanza, con tutta la semplicità di un rito normale e ricorrente.

Ci raccontano della gestione della mandria, delle stalle a valle, della produzione del formaggio, del burro e del latte.

E ci danno i nomi di un po’ di queste mucche, perché ognuna ha ovviamente il suo nome.

Mandulìn” è il nome della nostra pezzata rossa, etichettata con il 4992.

L’iniziale del nome, la “M”, corrisponde anche all’anno della sua nascita, secondo un semplice principio di rotazione che permette agli allevatori di sapere sempre l’età delle loro bestie.

Io però non riesco a risalire alla sua età perché mi distraggo guardandomi intorno, perdendomi qualche passaggio della conversazione e i nomi delle ultime nate.

Però ho un nome con cui chiamarla.

Mandulìn.

 

Riprendiamo il nostro cammino verso la malga che sarà il riparo delle mucche per tutta l’estate, e parte dell’autunno.

Ancora in costa e ancora a salire.

Cunéaz è ormai di fronte a noi: una decina di baite, una cappella e qualche rascard, arroccati a 2.057 metri sul versante sud del vallone che porta al colle Pinter.

La malga è appena sopra ma ancora non si vede.

Alcune mucche si fermano a bere alla fontana del villaggio, e io con loro. Il caldo oggi si fa sentire, nonostante la quota.

L’acqua è quella fresca di una fonte di montagna. Piace a loro e piace a me.

C’è anche della polenta in preparazione, nel paiolo messo al fuoco a margine di una delle baite, e con sorpresa scopro che il mio pranzo non sarà al sacco, come previsto, ma al tavolo e in compagnia di tutti quanti hanno partecipato alla transumanza.

Avrò quindi anch’io un piatto di polenta, ma c’è ancora qualche metro di dislivello da fare per arrivare in stalla.

Il tracciato è di nuovo su carrareccia, e andiamo via veloci.

Manca poco: una decina di minuti al massimo.

La malga è un bell’edificio, semplice, in pietra e legno, con accanto la casa dei malgari, un po’ più alta e intonacata.

Intorno ci sono solo prati scoscesi, qualche raro albero e i paletti che delimitano gli stazzi. Sul versante opposto, rivolto a nord, un fitto bosco di conifere.

Una ad una, le mucche devono entrare ed essere sistemate, con la coda legata alta e un po’ di mangime pronto.

Le operazioni comportano un certo assembramento davanti all’ingresso perché qualche mucca si agita e non sembra aver intenzione di entrare.

Bisogna fare attenzione che il fermento non si trasformi in caos.

Anche in stalla c’è un po’ di movimento: gli allevatori dirigono le operazioni, i malgari prendono in consegna le bestie, qualche ragazzino impara il mestiere, e gli intrusi – come me – curiosano.

La temperatura, dentro, è molto più alta che all’esterno. Le mucche si stanno pian piano acquietando ma la fatica della salita scalda comunque l’ambiente e impregna l’aria dell’odore della loro presenza.

Ad ognuna viene assegnato un posto e un’etichetta, affissa al muro, che ne riporta il nome, così che il malgaro possa iniziare a familiarizzarvi.

Qualche bestia si mette giù, qualcuna mangia o rumina.

In stalla scende pian piano il silenzio.

Io mi sposto nei locali accanto, dove è già pronta la zangola per ricavare il burro e il paiolo per fare il formaggio.

In realtà la prima mungitura, di mucche un po’ provate e di latte un po’ scosso, verrà consumata dal malgaro e dagli allevatori.

Solo da domani si inizierà con la produzione vera, quella che andrà sul mercato.

 

Il sole, ormai alto, invita a salire ancora, oltre la malga, lungo il sentiero che raggiunge i Laghi Pinter e il colle; ma noi scendiamo, tornando al villaggio.

In nostro cammino, oggi, finisce qua; anche perché la tavola è imbandita e non voglio perdermi l’occasione di mangiare in compagnia dell’intera brigata.

Ospiti della famiglia Favre, pranziamo con i tre gruppi di allevatori che, insieme, hanno portato su le loro bestie, e che, insieme, si siedono a mangiare e a festeggiare l’occasione.

Siamo all’interno di una piccola malga in pietra, adibita temporaneamente a sala da pranzo.

Fuori, all’aperto, qualche altro tavolo imbandito.

Il menù è a base di polenta, ovviamente; quella pregustata arrivando al villaggio.

Farina di grano saraceno e due tome intere, oltre a qualche panetto di burro.

E tanto altro, dall’antipasto al dolce. Amari compresi.

Mangiamo, affamati, al fresco delle mura di questo rustico.

Anche noi abbiamo fatto il nostro, e per oggi siamo parte della brigata.

 

A metà pomeriggio, sazi, o quasi, del silenzio di questa valle, decidiamo che è ora di scendere e ci incamminiamo, un po’ a malincuore.

Salutiamo tutti.

Salutiamo Mandulìn, e le altre mucche, e prendiamo il sentiero che ci riporta a valle.

Lungo il percorso ci fermiamo a riverire il Cervino che, ad un certo punto, ci appare verso nord.

Lo spirito è quello un po’ mesto di una giornata intensa che sta esaurendosi.

Concordiamo però che ad ottobre potremmo venire su di nuovo, per la demonticazione.

La “desarpa”.

Un’altra transumanza, ma al contrario.

Le bestie scendono, lentamente e amaramente come stiamo facendo noi, verso il fondo valle e verso le stalle dove passeranno l’inverno, ruminando al chiuso, nell’attesa che venga il tempo di una nuova ascesa e che torni la smania di salire.

L’occasione sarà più mesta, ma io non credo che mancherò.

Perché potrò di nuovo fare la parte dello pseudo-montanaro e perché, transumanza o no, quando salgo in quota mi spunta sempre un sorriso; e sorrido davvero, anche dentro.

In fondo ho solo la stessa smania di queste bestie.