ricordo gustoso

Mia madre; semplicemente e banalmente mia madre, con le mani nella frolla fresca di una crostata.

Ormai una trentina di anni fa, e forse anche qualcuno in più.

Questo è il mio “ricordo gustoso”.

Un po’ vago, purtroppo; lo chiamerei piuttosto un’impressione, soprattutto di lei, della sua presenza e del suo mite accudimento.

Le immagini più vive lo ho invece dell’impasto; il fulcro di tutta la mia golosa attenzione.

E in quell’impasto, le mani di mia mamma.

Quelle sì, le ricordo; asciutte e nodose già ai tempi, a lavorare sul tavolo di casa, con fuori una giornata di cielo azzurro.

Perché il tavolo della cucina, dedicato alla preparazione, era, ed è tutt’ora, proprio davanti ad una finestra che ricordo aperta, con tutta la luce possibile che lo illuminava.

Il punto di vista invece è quello di un bambino il cui sguardo ha da poco superato l’altezza del tavolo e che, altrimenti, usa la sedia per arrivare a mettere le mani un po’ in pasta.

La crostata, di mele cotte era un classico – intramontabile – del ricettario di mia madre.

Proprio per questo fatico a collocarla in un periodo preciso; l’età tra i 5 e i 10 anni potrebbe essere quella a cui i miei ricordi riportano.

Cioè mattinate a casa da scuola per un qualsiasi motivo, forse per un giorno di vacanza, o anche solo per un po’ di febbre.

E quindi, darsi da fare con la cucina, era un divertente e alternativo passatempo.

Ingredienti: farina bianca “00”, due uova, zucchero, un bel tocco di burro a temperatura ambiente e, forse, un po’ di rum.

Nient’altro, direi.

Il tutto a memoria, nessun libro o ricettario, tanta era l’abitudine e la consuetudine di mia madre nel prepararla.

Sul tavolo gli strumenti necessari: un cucchiaio di metallo, la bilancia, arancione, il mattarello, in legno, e la teglia, in alluminio.

Sarà una personale deformazione, poi divenuta professionale, ad indirizzarne la lettura, ma tutte le operazioni, ai miei occhi, avevano inizio da una imprescindibile composizione, quasi architettonica, degli ingredienti, che ricordo ancora come fondamentale punto di partenza: una montagna di farina, precisamente riversata sul tavolo di preparazione, nella cui caldera, scavata ad hoc, aprire le uova, versare lo zucchero, piazzare il burro e tutto il rimanente.

Mettere le mani nella caldera, rompere i tuorli ed iniziare ad impastare, era il mio ruolo e, ovviamente, il momento più divertente della preparazione: il momento in cui ci si iniziava a sporcare le mani per dare il via alla fase di impasto.

Cioè amalgamare il tutto fino ad ottenere una profumata massa gialla, omogenea, e farlo, a mano, nel più tradizionale dei modi: lavorandola sul tavolo, schiacciandola e rigirandola, raccogliendo via via la farina e lo zucchero, sparsi sul piano, e i grumi ancora non amalgamati.

La verifica, al crudo, dell’impasto, e del dosaggio degli ingredienti, era un compito per assaggiatori esperti, quale ero io; candidato volontario, perché la pasta della crostata, cruda, è squisita.

Non scopro nulla, ma è fresca, dolce e morbida, e dentro si sentono i grani di zucchero.

Quasi la preferivo, e la preferisco, a quella cotta in forno.

Superato il test, si passava alla stesura. Avanti e indietro sul tavolo, con il mattarello di legno, finché la pasta non raggiungeva uno spessore di 2/3 mm.

Il tutto previa abbondante infarinatura del piano di lavoro, cioè del vecchio tavolo di formica marrone.

Stendere, stendere, stendere fino ad allargare l’impasto alla dimensione necessaria, con l’abbondanza sufficiente a risvoltarlo al bordo.

E quindi ungersi le mani a dovere per imburrare il fondo della teglia, altro mio compito – per quanto meno gratificante -, e mettervi finalmente, senza romperlo o fessurarlo, parte dell’impasto, rifilandolo ai margini.

Con gli avanzi si faceva il secondo assaggio: non più un test di verifica, ma un vero e proprio furto di gola, perché i resti del taglio erano a disposizione solo per qualche secondo, prima che venissero inglobati in quel che rimaneva della frolla e lavorati per ricamare la torta con le classiche strisce in diagonale.

Nel frattempo mia madre pensava al ripieno, di cui io mi occupavo ben poco, perché troppo laborioso o comunque noioso. Quasi un corredo, scontato, certamente non di mia competenza: mele cotte, preparate – non so come, son sincero – sempre da mia madre; forse semplicemente tagliate a cubetti e messe a cuocere, con un po’ di acqua e zucchero.

Una purea agli occhi non così invitante ma ottima al gusto e assolutamente perfetta per la torta, da stendere a raso, con il cucchiaio di legno.

Il tutto, decorato con le strisce di frolla e finito con il risvolto del bordo, a coprirne i tagli, veniva infornato per un tempo non ben definito; altro dettaglio, oggi non così trascurabile, ai tempi quantificabile solo nell’attesa di una prima fetta di torta, magari calda.

Il risultato era “la crostata”; o quello che io, ancora oggi, intendo come la vera crostata.

Tutte le altre crostate, che mangio in giro, sono altro, ovviamente.

E la sua ricetta era quindi questa, più o meno.

La vera crostata mi capita ancora di mangiarla, anche se non così di sovente.

Non capita più di farla, da tempo; men che meno con mia mamma.

E lo dico, ovviamente, con un malcelato senso di malinconia, perché il tempo di fare le torte insieme è ormai passato da un po’.

Al contempo, però, che tutti i ricordi, preziosi, ed i sapori, di questo piccolo rito rimangano unicamente legati alle mani di mia madre e all’ormai inimmaginabile spensieratezza che accompagnava questi momenti di normale quotidianità, è qualcosa che paradossalmente, ma con piacere, conservo distante, intatto e inalterato, nei meandri della mia, ahimè debole, memoria.